L’Abruzzo ha un volto molto antico: quello dei suoi tratturi, bracci, tratturelli  che ne segnano il territorio, là dove sono stati conservati e tutelati. Le antiche  cartine d’Abruzzo mostrano  una sorta di sistema vascolare di una regione che attraverso  l’ “erbal fiume silente”, come  Gabriele d’Annunzio nella sua poesia  “I pastori”  definiva il tratturo, si alimentava ed alimentava la propria economia, quella della transumanza.
 
Il termine deriva da “trans” forma avverbiale: attraverso, e humum: terra. Andare attraverso con il significato di trasferimento di persone e bestiame in estate ai pascoli della montagna e in autunno al piano.
 
Questo “sentiero naturale tracciato dalle greggi”, viene da molto lontano, perché già all’epoca dei Romani si individuavano come “semita aspera qua pecora in montes ire solent” (aspri sentieri sui quali sogliono transitare le pecore sui monti). Su questi “sentieri” si svolgevano le partenze ed i ritorni, con un fenomeno chiamato appunto  transumanza.       
  Le greggi appartenevano a grandi proprietari detti “armentari”

  Le greggi appartenevano a grandi proprietari detti “armentari”

 
 Tratturo, che sui dizionari viene definito “largo sentiero erboso per far transitare greggi e armenti dalla Puglia ai monti degli Abruzzi e viceversa” è un termine moderno, che si incontra poco nella letteratura italiana, salvo nell’ ”Alcyone”, e nel libro terzo delle “Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi” del D’Annunzio.
 
LA STORIA – La transumanza è un sistema di allevamento antico diffuso in molte aree del bacino del Mediterraneo che prevede in estate lo sfruttamento dei pascoli dislocati a quote più elevate sui territori montani e d’inverno il trasferimento delle greggi in pianura anche a distanza di centinaia di Km. 
 
Nel caso dell’Abruzzo la transumanza orizzontale veniva praticata già in epoca italica dai Sanniti che si scontrarono con i Dauni della Puglia proprio per il controllo dei pascoli invernali.  Durante il periodo romano la transumanza ebbe un forte incremento grazie ad un’efficiente organizzazione dello stato. Alcune importanti città romane sorsero proprio sui tratturi per controllare  lo  spostamento delle  greggi tra Peltuinum e  Juvanum in Abruzzo e Sepino in Molise.
  La vita dei pastori era dura, all’aria aperta e regolata sulla vita del bestiame 

  La vita dei pastori era dura, all’aria aperta e regolata sulla vita del bestiame 

 
La seconda rivoluzione economica nel campo della pastorizia si ebbe alla metà del XV secolo  per opera di Alfonso d’Aragona  re di Napoli che prese a modello il sistema in uso da tempo nella penisola iberica dei pastori spagnoli chiamata mesta. 
 
Riorganizzò le vecchie “calles” romane che presero il nome di tratturi. Era tutto un mondo che si muoveva, un’economia che si sviluppava intorno a queste vie che organizzata con precise leggi fiscali, è servita a sostenere per secoli le finanze del Regno di Napoli e delle Due Sicilie.      
                                 
Alfonso I d’Aragona, con la Prammatica del 1 agosto 1447,  istituì la Dogana per la “Mena delle pecore” in Puglia.  Le terre di pascolo, dette locazioni,  erano del Demanio Regio e si potevano utilizzare solo pagando la “fida”, un canone annuo, fissato in rapporto al numero delle pecore: ogni 100 pecore davano diritto ai pastori, detti locati, di utilizzare 24 ettari di terre non arate, chiamate poste.
 
Un sistema fiscale, duro per i piccoli pastori, che ha fruttato enormi entrate, fino al maggio 1806, quando Giuseppe Bonaparte, re di Napoli abolì le servitù sul Tavoliere di Puglia.
Con  l’Unità  d’Italia  alcuni  dei tratturi principali furono  assimilati alle  strade nazionali         e protetti, altri furono riassorbiti dall’agricoltura. Questo sistema di percorsi naturali, storicamente sedimentato, era  incardinato  su pochi valichi che limitavano e canalizzavano i collegamenti  con  il resto  della penisola.
 
 SOCIETÀ GERARCHICA 
Le greggi transumanti appartenevano a grandi proprietari detti  armentari, ricchi possidenti che investivano i loro capitali nell’allevamento e nella produzione della lana. Ma anche gli ordini e le congregazioni religiose e i feudatari locali e gli esponenti dell’alta borghesia possedevano numerose greggi. I piccoli proprietari locali che per necessità si recavano nei pascoli invernali si riunivano  in  società  per  ridurre  le  spese  dell’attività.  
                                                
Tra i pastori vigeva una ferrea organizzazione gerarchica.                                                                                     A  capo  stava  il  padrone  che  si  serviva  del   “massaro  di  pecore” che organizzava tutte le  attività  connesse  al  pascolo. Il “casaro” era  addetto alla  lavorazione  e  trasformazione  del  latte,  il  buttero  sovrintendeva  agli  animali  da  soma e  agli  spostamenti  logistici  durante  il  periodo  della  transumanza.  I “pastori” erano addetti alla custodia delle greggi.                                 
Ad   ognuno  veniva  affidata  una  “morra”  di  pecore  composta  da circa  200   animali,  infine venivano  i  più  giovani  detti  “pastoricchi” a  cui  erano  affidati i compiti minuti e umili. 
 
UNA VITA DURA- I pastori transumanti a settembre riprendevano mestamente la via delle Puglie dove rimanevano fino a maggio quando, dopo la fiera di Foggia, iniziava il viaggio di ritorno verso la montagna natia e le famiglie lasciate per molti mesi. Quando tornavano portavano nelle loro bisacce i doni per i loro bambini e le loro spose.              
                                                                  
Drammatiche ed epiche insieme, le partenze a fine settembre  separavano i nuclei familiari, affidati alle madri coraggio delle montagne abruzzesi, che si riunivano per poche settimane da maggio a giugno in un’atmosfera di ritrovati sentimenti e passioni e poi di nuovo in montagna nella solitudine dei pascoli in attesa di ridiscendere in paese.   
 
La vita del pastore non era facile, caratterizzata da privazioni e stenti. D’estate, quando seguiva le greggi sui pascoli della montagna, era costretto a vivere all’interno delle grotte  adibite sia a stazzo, ricovero degli animali durante la notte, sia a rifugio del pastore, e quando non vi erano ripari naturali costruivano rifugi in terra o in pietra o anche capanne a tholos dalla copertura a cupola a base circolare o quadrata. Il cibo scarseggiava ed era costituito essenzialmente da ricotta, siero e pancotto una semplice minestra fatta con il pane secco e condita con poco olio. Si mangiava carne solo quando qualche pecora moriva, per cause accidentali o sbranata dai lupi.
 
La giornata era lunga e scandita dagli astri. All’alba i pastori si alzavano quando in cielo splendeva il pianeta Venere, a sera riposavano quando compariva la “stella del pecoraio”. 
 
Nel silenzio delle lunghe ore passate a guardia del gregge, i pastori impiegavano il tempo intagliando il legno, leggendo i racconti  cavallereschi e le gesta dei Paladini di Francia o scrivendo i loro pensieri e le loro riflessioni, ma anche risentimenti e rancori incidendoli sulla roccia. Esiste infatti una letteratura di tipo pastorale scritta sulle pietre della Maiella che va dal 1600 ai nostri giorni.
 
Molti di umili origini avevano imparato a leggere e a scrivere intorno al fuoco dello stazzo. Un’altra occupazione era suonare le zampogne o le ciaramelle, strumenti musicali tradizionali che portavano sempre con loro durante il lungo periodo della transumanza.

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