Quelle pesanti etichette che marchiarono gli italiani arrivati nei Paesi d’adozione
Pregiudizi ed epiteti: gli italiani erano vittime di pesanti discriminazioni
Wog, wop, dago, spag, rital, carcamano, greaser ed eyetie non sono parole belle per chi ne è il soggetto. Almeno non come una volta. Sono parole utilizzate per “etichettare” gli italiani e i loro figli. In ordine vengono dall’Australia, dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, Belgio, Brasile, Nuova Zelanda e di nuovo Stati Uniti. 
Non erano le uniche parole utilizzate per descrivere gli italiani e le parole cambiavano secondo le zone e l’epoca dell’immigrazione. Basta fare una ricerca su Google per farsi un’idea degli epiteti utilizzati. 
Per gli immigrati italiani erano il timbro dato da chi li considerava di poco conto. Per i figli degli immigrati che volevano solo essere trattati come gli altri ragazzi, queste parole erano la prova d’essere diversi. 
Naturalmente tutti gli immigrati avevano termini dedicati a loro secondo la loro origine. Ma in ogni caso facevano sempre parte della prima fase, e dunque la più difficile, della loro vita nel nuovo Paese. 
Non era raro che l’uso di questi epiteti, soprattutto se accompagnati da battute pesanti, provocasse reazioni violente. Ci volle tempo per capire che chi li utilizzava spesso si sentiva minacciato dai nuovi arrivati. Nell’immediato dopoguerra, in paesi come l’Australia e gli Stati Uniti, bisogna ricordare che solo pochi anni prima gli italiani erano stati i nemici e dunque persone di cui diffidare. 
Questi atteggiamenti sono cambiati con il tempo, insieme al lavoro duro degli immigrati che hanno dimostrato d’avere un ruolo importante  nello sviluppo del loro nuovo Paese. 
Nelle scuole la situazione era ancora più delicata perché gli studenti non avevano l’esperienza e la maturità per capire che i loro compagni di banco ripetevano quel che i genitori dicevano in casa. Purtroppo, erano proprio queste caratteristiche della loro giovane età che rendevano ancora più crudeli le battute e gli scherzi basati sui pregiudizi di chi utilizzava questi epiteti. 
Non potevano capire che gli studenti australiani, americani e così via avevano paura di loro e che si sentivano minacciati dal nuovo linguaggio che ora sentivano parlare in strada. Anche la messa in vendita di nuovi prodotti alimentari come broccoli, peperoni, zucchini e carciofi era vista  con sospetto dagli abitanti  di quei Paesi. 
Persino i nomi degli immigrati creavano problemi. Non erano Tom, Dick o Harry (la versione inglese della frase italiana Tizio, Caio o Sempronio), ma Giovanni, Rocco, Maddalena e Filomena che non esistevano prima in questi Paesi. 
La risposta degli autoctoni era di dare nomi nuovi agli immigrati e questo risultò semplice. Gerardo diventò Jerry, Filomena cambiò in Phil, Giovanni in John e Giovanna in Joanne. Con il cambio dei nomi i nuovi arrivati cominciarono a integrarsi anche se c’era chi, come l’autore, non accettava queste modifiche. In ogni caso, non c’è dubbio che le differenze tra i gruppi rimanevano e gli scontri a causa di parole offensive non sono mai sparite. 
Nel tempo l’atteggiamento degli immigrati è cambiato. Con la padronanza delle lingue locali gli immigrati italiani hanno potuto rispondere con battute e ironie che sono sempre la migliore risposta alle offese.
Però, il cambiamento più grande è arrivato dai figli degli immigrati che con la loro maturità si sono resi conto che sarebbero sempre stati diversi dai loro compagni di banco. Infatti con l’inizio dei viaggi nei Paesi d’origine dei genitori hanno cominciato a sentire maggiore sicurezza in queste differenze e di seguito sentire un orgoglio sempre più forte delle loro origini. 
 
In Australia e in altri Paesi il cambiamento più forte si è avuto con l’arrivo di una generazione di comici d’origine non anglosassone che hanno utilizzato le loro differenze dagli australiani come base dei loro sketch. Non prendevano in giro solo la xenofobia di una parte della popolazione, ma hanno avuto successo perché una parte dei loro spettacoli era dedicato alle proprie tradizioni e usanze, ormai svanite, come i controlli rigidi dei genitori sulle ragazze italiane e greche che non avevano la stessa libertà di azione delle loro amiche australiane. Prendevano anche di mira gli errori della lingua inglese usata dai genitori e gli equivoci che ne derivavano. 
Un esempio classico di questo tipo di commedia è il film “Il mio grande, grasso matrimonio greco” che ha avuto un successo mondiale proprio per le generazioni di figli di immigrati, non solo greci, ma anche di moltissimi emigrati italiani, che si sono riconosciuti nei protagonisti. 
 
In Australia questi comici  avevano un soggetto particolare che utilizzavano con bravura, l’origine delle prime colonie britanniche che sono diventate col tempo gli Stati della federazione d’Australia. In una battuta memorabile un comico diceva “Inglesi, australiani, neozelandesi. Tutti uguali, tutti galeotti!”. 
 
In Belgio la canzone “Je suis rital et je le reste” (Sono rital e lo sarò sempre) dell’oriundo Claude Barzotto ha ottenuto un successo enorme perché dimostrava chiaramente l’orgoglio della seconda generazione delle proprie origini e le parole sarebbero state capite e apprezzate ovunque ci fossero figli di immigrati. Non posso continuare senza nominare il film tedesco “Almanya, la mia famiglia torna in Turchia” della giovane regista turco-tedesca Yasemin Samdereli che descrive perfettamente in modo divertente la vita degli immigrati di tutti i Paesi. 
 
In questo modo sono spariti l’imbarazzo per le differenze e la vergogna delle origini e sono diventati invece fonte di sicurezza in se stessi, come anche la base di una nuova faccia della cultura dei Paesi di origine. 
L’arrivo di ondate di immigrati in un Paese non può lasciare  quel Paese immutato. I nuovi arrivati portano nuove tradizioni, nuove idee e un nuovo modo di vedere il mondo. Queste differenze non sono solo di religione perché esistono pochi Paesi composti esclusivamente da membri di una sola religione. Le differenze nascono dalla Storia di ciascun Paese e la storia è sempre diversa. 
 
La presenza dei nuovi residenti provoca  timori e diffidenze che gli autoctoni non sapevano di avere e per questo motivo, purtroppo, un effetto dell’immigrazione massiccia è l’intolleranza di una parte della popolazione che non vuole che il proprio Paese cambi (l’uso degli epiteti non è che una prova del disagio). Un desiderio impossibile perché nessun Paese rimane uguale per sempre. 
 
La storia dimostra chiaramente che ogni Paese trova sempre il miglior modo per risolvere i conflitti causati dai timori del nuovo. In questo processo di cambiamento il governo ha un ruolo importante quando assicura parità di trattamento e diritti per tutti e se il sistema scolastico svolge un ruolo di formazione fondamentale per superare i timori e le differenze di entrambe le parti.  Ma le esperienze dall’estero, come quelle citate nell’articolo dimostrano che a lungo termine si trovano soluzioni ai problemi e che le migliori risposte vengono proprio dagli immigrati.

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