A la campagne di Boldin Giovanni (Ph. mostra Arcadia e Apocalisse. Paesaggi italiani in 150 anni di arte, fotografia, video e installazioni - Palp Pontedera)

Fino al 26 aprile 2020 il PALP Palazzo Pretorio di Pontedera ospita la mostra Arcadia e Apocalisse. Paesaggi italiani in 150 anni di arte, fotografia, video e installazioni, ideata e curata da Daniela Fonti e Filippo Bacci di Capaci e promossa dalla Fondazione per la Cultura Pontedera, dal Comune di Pontedera, dalla Fondazione Pisa, con il patrocinio e il contributo della Regione Toscana. La mostra, che proseguirà sino al 26 aprile 2020, ha l’obiettivo di indagare il modo in cui il paesaggio è stato percepito e rappresentato artisticamente dal 1850 fino ai giorni nostri, mettendo in luce quelli che sono stati i cambiamenti in materia di estetica e di codici rappresentativi e cercando al contempo di sensibilizzare la coscienza dei visitatori sul tema del degrado ambientale.

Attraverso un lungo racconto che si avvale di opere pittoriche, scultoree, arti decorative, fotografia e nuovi media – dalla metà dell’Ottocento ad oggi – l’esposizione ruota intorno al pensiero creativo sul paesaggio, un genere pittorico ereditato dal Settecento come rispecchiamento della natura nell’arte, in antitesi alla pittura mitologica e di storia, che si libera dai suoi stereotipi senza però scomparire, per la capacità che il paesaggio stesso ha di rinnovare profondamente i propri significati e codici rappresentativi, di riflettere le radicali trasformazioni della cultura artistica italiana e della società nel suo complesso.

La mostra si articola in vari capitoli, dalla diversa estensione, che servendosi della pittura, della fotografia, più avanti del video, del film e delle installazioni, conducono lo spettatore ad immergersi nei sentimenti e nelle riflessioni che – di decennio in decennio – il paesaggio ha ispirato negli autori e nei fotografi e ad apprezzare e comprendere opere che vogliono essere, oltreché immagini coinvolgenti, anche documenti in cui si travasa l’intera cultura di un’epoca. La pittura di paesaggio è infatti il frutto di un processo molto complesso di interpretazione e ‘ricostruzione’ della natura, che coinvolge il momento storico di riferimento con il suo sistema di relazioni, la cultura artistica cui l’autore appartiene e la storia individuale. Sentimenti e riflessioni che nel corso della lunga trasformazione del Bel Paese, trapassano dalla scoperta, in epoca ottocentesca, di un “paesaggio italiano” ereditato dal “Grand Tour” offerto alla modernità come cornice d’inalterata bellezza, alla testimonianza delle azioni talvolta violente che la storia ha inflitto al territorio italiano (dalle demolizioni alle devastazioni delle guerre), agli sconvolgimenti legati all’epoca della ricostruzione postbellica, al definitivo tramonto del mito post-romantico e alla  sua sostituzione con azioni di trasformazione così invasive e devastanti da far presagire una imminente Apocalisse.

Un autentico sentimento della natura. Nella pittura italiana del secondo Ottocento si afferma un sentimento della natura ereditato dal Romanticismo che porta a una interpretazione che si fonda su un più autentico rapporto con il vero. In area ticinese e toscana il processo di depurazione dai cliscé accademici passa attraverso l’idea del paesaggio come teatro della contemporanea storia risorgimentale (da cui muovono molti pittori macchiaioli come Giovanni Fattori e Odoardo Borrani, Cristiano Banti), come libera ricreazione luminosa del paesaggio toscano ereditato dai padri, e più tardi come ambientazione della vita all’aperto della emergente società borghese rappresentata della pittura da maestri come Michele Tedesco e Giovanni Boldini e della fotografia come Giacomo Caneva e Robert Macpherson. In area laziale, il paesaggio della Campagna romana, fra i riferimenti del Grand Tour, ancora documentato nei grandi album dei fotografi, si afferma nella sua classica magnificenza e desolazione come testimonianza, l’unica intatta, dell’antica grandezza in contrasto con la modestia del presente. Verso la fine del secolo, e a cavallo del nuovo, è prevalentemente sul paesaggio che si riversano le predilezioni dei pittori divisionisti innamorati della scomposizione della luce (Angelo Morbelli, Plinio Nomellini, Vittore Grubicy de Dragon), che rivaleggiano con i fotografi (Gustavo Bonaventura, Stefano Bricarelli, Filippo Rocci) nella ricerca di sfolgoranti effetti luminosi, nella apparente emulazione dei fenomeni naturali, ma con esiti di sofisticata astrazione.

La stagione del futurismo. Respinto ai margini del rutilante mondo iconografico del primo Futurismo macchinista, il paesaggio trova comunque i suoi cultori fra quegli artisti innamorati dell’analisi del fenomeni naturali o più suggestionati dalle atmosfere simboliste; più avanti nel corso degli anni trenta, il paesaggio diventa la naturale cornice dell’aeropittura e dell’aerofotografia, ma anche di svagati esperimenti di fotocollage, mentre la sua ultima stagione si caratterizza per una forte impronta spiritualista, basata sull’«idealismo cosmico», rappresentazione per simboli dello spazio siderale come metafora della densità psichica dell’uomo. Saranno presenti in mostra opere di Giacomo Balla, Leonardo Dudreville e Gerardo Dottori, Enrico Pedrotti, Fortunato Depero.

L’età delle trasformazioni: l’invenzione delle città. I due decenni fra le due guerre vedono, con in consolidarsi del fascismo l’avvio di una politica di lavori pubblici di grande impatto territoriale, destinata a imporre profonde modificazioni nel paesaggio italiano, accompagnate dall’enorme risonanza propagandistica creata dai moderni mezzi di comunicazione. I lavori di bonifica nell’Agro Pontino ingoiano ettari di territorio paludoso abitato da contadini transumanti e da butteri, portando alla fondazione delle “città nuove”, mito del fascismo, dominate dalla geometria del razionalismo (Giulio Aristide Sartorio, Duilio Cambellotti). La Capanna, archetipo residuale di una cultura autoctona di miseria e pura sopravvivenza, è finalmente sconfitta, almeno nelle intenzioni della propaganda.

Dagli anni Venti alla guerra. La pittura del Novecento è letteralmente dominata dal paesaggio, soggetto ambiguo nel quale si rispecchiano gli orientamenti espressivi e anche contraddittori di una intera generazione espressi da Antonio Donghi, Ottone Rosai e Giorgio Morandi; dall’impossibile recupero di una perduta Arcadia senza tempo all’aspra denuncia di problemi sociali lasciati irrisolti (Lorenzo Viani). Schermo perfetto per la idealizzazione del “ruralismo” primitivista antiurbano, nutrito di arcaiche virtù e incorrotti sentimenti (Ardengo Soffici), è per altri artisti una via di fuga tutta privata, trasposizione degli intimi moti dell’animo e di uno sgomento di fronte alla incommensurabile varietà e incombenza della natura.

Il paesaggio devastato: gli anni della guerra. Il decennio che si chiude con lo scoppio della guerra, si apre con un presagio di distruzione contrabbandato come pretesa di rivoluzione (le demolizioni nei grandi piani urbanistici) cui gli artisti, come Mario Mafai e Afro Basaldella, rispondono con sgomento e angoscia. Queste immagini saranno poi sinistramente simili alle fotografie dei bombardamenti che sventrano le nostre città e i territori. I pittori invece preferiscono non ritrarre eventi bellici e si affidano alla metafora e al simbolo proiettando sul paesaggio, reso afono e privo di bellezza, l’angoscia individuale e collettiva provocata dai tragici eventi bellici (Carlo Levi, Fausto Pirandello, Galileo Chini).

Dal 1960 al 1990. Gli anni Sessanta sono dominati, come in tutta Europa, dalle ricerche postinformali e astratte. Il paesaggio è per lo più un riferimento interiorizzato e rimanda ad una esperienza di carattere profondamente individuale (Tancredi, Giulio Turcato, Mario Giacomelli, Mimmo Jodice); tuttavia è sul versante della pop art e delle nascenti ricerche concettuali (Mario Schifano, Luca Maria Patella, Mario Cresci) che il paesaggio riprende piena legittimità in artisti che affrontano il tema attraverso il confronto fra pittura, nuovi media espressivi e nuovi materiali industriali, in uno sforzo di creazione di nuovi linguaggi e totale oggettivazione dell’immagine. I grandi maestri della fotografia di paesaggio, (Luigi Ghirri, Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, Guido Guidi, Franco Fontana) s’impongono per il rigore formale che coniuga soggettività e dati della realtà esterna.

Fino ai nostri giorni. È un racconto aperto, nel quale si confrontano esperienze anche molto diverse, ormai affidate prevalentemente ai linguaggi del video e delle installazioni tridimensionali, (Michelangelo Pistoletto); ma all’interno delle quali il paesaggio è quasi univocamente assunto come elemento di preoccupazione e riflessione per gli esiti delle attività umane, una cornice sempre più fragile ed esposta. Fa eccezione la rinnovata utopia dei parchi di scultura ambientale, arcadici dialoghi fra arte e paesaggio, documentabili solo attraverso le fotografie di un grande maestro come Aurelio Amendola. Spoglio da ogni retorica, il paesaggio italiano contemporaneo ripreso dai grandi maestri mette a nudo la sua fragilità, ma anche la sua capacità di resilienza e la forza comunicativa di una imprevedibile, inedita e ostinata bellezza.

Arcadia e Apocalisse. Paesaggi italiani in 150 anni di arte, fotografia, video e installazioni è organizzata con la consulenza di Paolo Antognoli, Giovanna Conti, Alessandro Romanini e Francesco Tetro. La sezione fotografia è a cura di Maria Francesca Bonetti.


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